L’acqua che non vedi: quanta ne consumiamo (senza saperlo) per jeans, caffè e tecnologia

Luglio 26, 2025

Ambiente


Un sorso di caffè, 130 litri. Un paio di jeans, 10.000 litri.

Se stai leggendo questo articolo sorseggiando un espresso o indossando i tuoi jeans preferiti, potresti non immaginare quanta acqua invisibile hai già consumato oggi. Questo tipo di consumo è detto impronta idrica, e rappresenta l’acqua dolce impiegata, direttamente o indirettamente, per produrre un bene o un servizio. Secondo i dati aggiornati del Water Footprint Network (WFN), si tratta di una delle principali metriche per comprendere l’impatto delle nostre scelte quotidiane sull’ambiente. Il problema? È un consumo che spesso non vediamo, ma che pesa enormemente sulle risorse del pianeta.

Il concetto di impronta idrica è stato introdotto nei primi anni 2000 da Arjen Hoekstra dell’Università di Twente (Paesi Bassi), e oggi è riconosciuto da istituzioni come FAO, ONU e IPCC come uno strumento cruciale per la gestione sostenibile dell’acqua. Comprende tre componenti: l’acqua blu (quella prelevata da fiumi, laghi e falde), l’acqua verde (pioggia immagazzinata nel suolo) e quella grigia (necessaria a diluire gli inquinanti prodotti). In un mondo in cui, secondo UN-Water (2023), oltre 2 miliardi di persone vivono in paesi con stress idrico elevato, capire quanta acqua serve per ciò che consumiamo è il primo passo per cambiare rotta.

Jeans, smartphone e avocado: quando la sostenibilità si misura in litri

Facciamo qualche esempio concreto: per produrre una tazza di caffè servono in media 130 litri d’acqua, considerando l’intero ciclo produttivo – dalla coltivazione del chicco fino alla tazzina sulla tavola. Per un paio di jeans, si arriva fino a 10.000 litri, di cui gran parte impiegata nella coltivazione del cotone, uno dei materiali più assetati del settore tessile. La produzione di un solo hamburger richiede circa 2.400 litri, mentre uno smartphone consuma indirettamente oltre 900 litri, tenendo conto dell’estrazione e lavorazione dei minerali, della produzione dei componenti e dell’energia utilizzata.

Questi numeri possono sembrare esagerati, ma sono il frutto di anni di studi condotti da istituti come il WFN, l’UNESCO-IHE Institute for Water Education e l’International Water Management Institute (IWMI). Secondo uno studio pubblicato su Nature Sustainability (2022), il settore agroalimentare rappresenta il 70% dell’uso globale di acqua dolce, seguito dall’industria e dalla produzione di energia. Ma attenzione: anche l’economia digitale ha un’impronta idrica in crescita. I data center che alimentano le nostre app, social e streaming video richiedono grandi quantità d’acqua per il raffreddamento: nel solo 2022, Google ha utilizzato oltre 21 miliardi di litri di acqua per questa funzione, secondo il suo ultimo Environmental Report.

Il problema, però, non è solo “quanta” acqua usiamo, ma anche dove la preleviamo. Molti prodotti consumati in Europa, ad esempio, vengono da aree del mondo già colpite da scarsità idrica, aggravando le disuguaglianze globali. È il caso dell’avocado cileno, delle mandorle californiane o del cotone pakistano: beni che consumano acqua “là” per soddisfare la domanda “qui”.

Scegliere con consapevolezza: come ridurre il nostro consumo idrico indiretto

Esistono strategie efficaci per ridurre l’impronta idrica personale e collettiva, senza rinunciare alla qualità della vita. La prima è la scelta informata dei prodotti, privilegiando beni con una filiera sostenibile e a basso impatto idrico. Ad esempio, il cotone biologico consuma fino al 91% in meno di acqua blu rispetto a quello convenzionale (Fonte: Textile Exchange, 2023). Anche una dieta più plant-based ha effetti significativi: secondo la FAO, una dieta ricca di carne può comportare un’impronta idrica 2-3 volte superiore rispetto a una vegetariana.

Ridurre lo spreco alimentare è un’altra leva potente: ogni alimento buttato è acqua sprecata. Un dato FAO del 2023 stima che oltre il 30% del cibo prodotto nel mondo viene perso o sprecato, pari a 250 km³ di acqua dolce all’anno. Anche l’estensione della vita utile dei prodotti elettronici e l’adozione di pratiche di economia circolare contribuiscono a ridurre l’impatto nascosto delle nostre abitudini.

Infine, il ruolo delle imprese è cruciale. Sempre più aziende, spinte da normative europee come la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) o da pressioni degli investitori ESG, stanno implementando sistemi di monitoraggio dell’impronta idrica e investendo in tecnologie per il riuso e la riduzione dei consumi. Un esempio virtuoso è quello di Levi Strauss & Co., che ha ridotto del 96% l’uso di acqua nella fase di finissaggio di alcuni jeans grazie al programma Water<Less.

Ogni scelta conta, anche se l’acqua non si vede

L’acqua che non vediamo è forse la più pericolosa, perché ci illude di essere estranei al problema. In realtà, ogni oggetto che acquistiamo e ogni alimento che consumiamo racconta una storia fatta di fiumi, pozzi, precipitazioni e comunità che dipendono da queste risorse. Capire l’impronta idrica è quindi un atto di responsabilità e consapevolezza, ma anche un invito a cambiare rotta.

Ridurre il consumo idrico indiretto non richiede soluzioni drastiche: bastano piccoli gesti quotidiani – scegliere un prodotto con meno imballaggi, preferire frutta di stagione, leggere l’etichetta – per contribuire a un impatto globale più sostenibile. Perché l’acqua è un bene comune, e conservarla è un dovere che passa (anche) attraverso ciò che decidiamo di mettere nel carrello.

Water Footprint Network – “Product Water Footprints”

Rapporto ufficiale della FAO

Google – Environmental Report 2023