Clima e politica: chi sta davvero facendo qualcosa e chi sta solo parlando?

Giugno 13, 2025

Tecnologia


Mentre la temperatura globale continua a salire e gli eventi estremi si moltiplicano, la politica mondiale si trova a un bivio: agire con urgenza o rimanere intrappolata nella retorica. Ma chi, tra le nazioni del mondo, sta davvero cambiando rotta? E quali azioni stanno dimostrando di fare la differenza?

Nel 2023, il nostro pianeta ha registrato l’anno più caldo mai documentato (fonte: Copernicus Climate Change Service, gennaio 2024), con una temperatura media globale di 1,48 °C sopra i livelli preindustriali. Questo dato inquietante, vicino alla soglia critica di 1,5 °C stabilita dagli Accordi di Parigi del 2015, rende sempre più evidente che il tempo per agire si sta esaurendo. In questo contesto, la politica assume un ruolo cruciale: sono i governi, infatti, a determinare le traiettorie energetiche, industriali e infrastrutturali delle proprie economie. Tuttavia, non tutte le azioni politiche si equivalgono, e in molti casi, le promesse non si traducono in misure concrete.

Leader climatici: chi sta davvero facendo la differenza?

Tra i paesi che si stanno distinguendo per politiche climatiche incisive, emergono alcuni esempi virtuosi che meritano attenzione. La Danimarca, ad esempio, ha messo in atto una delle strategie climatiche più ambiziose al mondo, con l’obiettivo di ridurre del 70% le proprie emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Il paese sta investendo massicciamente nell’eolico offshore, puntando a diventare un hub europeo per le energie rinnovabili (fonte: IEA, 2023).

Un altro esempio è il Cile, che ha approvato nel 2022 una legge quadro sul cambiamento climatico, fissando un obiettivo di neutralità carbonica entro il 2050 e imponendo una decarbonizzazione progressiva del sistema energetico. Il piano include l’eliminazione graduale delle centrali a carbone e un’espansione senza precedenti delle rinnovabili, che nel 2024 rappresentano già oltre il 60% della capacità installata del paese (fonte: IRENA, 2024).

La Germania, pur tra luci e ombre, ha accelerato la sua transizione con il piano “Klimaschutzgesetz” e lo “Energiepaket 2023”, fissando per legge il phase-out del carbone entro il 2030 e rafforzando gli investimenti in mobilità elettrica, idrogeno verde e riqualificazione edilizia. Il paese ha inoltre introdotto un prezzo nazionale sul carbonio per i settori dei trasporti e del riscaldamento domestico.

Nel Sud globale, spicca il caso del Marocco, che ha puntato sull’energia solare con progetti pionieristici come il mega-impianto di Ouarzazate, uno dei più grandi al mondo, contribuendo a una quota crescente di energia pulita nel mix nazionale. Il paese punta a coprire il 52% del fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2030 (fonte: World Bank, 2023).

Promesse vuote e politiche inadeguate: chi sta rallentando la transizione

Dall’altro lato dello spettro, ci sono paesi che, pur avendo un’enorme responsabilità storica e attuale nelle emissioni, continuano a tergiversare o a promuovere politiche ambigue. Gli Stati Uniti, pur avendo introdotto l’Inflation Reduction Act (IRA) nel 2022 — un pacchetto da 370 miliardi di dollari per il clima e l’energia — restano il secondo maggiore emettitore al mondo e mantengono ancora enormi sussidi ai combustibili fossili (oltre 760 miliardi di dollari nel 2022 secondo l’IMF). Inoltre, l’alternanza politica rischia di compromettere la continuità delle politiche ambientali a lungo termine.

Anche la Cina, primo emettitore globale di CO₂, presenta un quadro complesso: da un lato guida il mondo per investimenti in energia solare e veicoli elettrici; dall’altro, ha approvato nel solo 2023 la costruzione di nuove centrali a carbone per una capacità di oltre 100 GW (Global Energy Monitor, 2024), vanificando in parte gli sforzi di decarbonizzazione.

L’India, pur avendo un’impronta pro capite ancora contenuta, è in rapida crescita economica e continua a fare largo affidamento sul carbone. Anche qui, coesistono segnali positivi (come il piano per 500 GW di rinnovabili entro il 2030) con forti contraddizioni. In generale, molti paesi dell’Asia meridionale, del Medio Oriente e alcune economie emergenti stanno ancora investendo massicciamente in combustibili fossili, spesso con l’argomento della “giustizia climatica” come scudo politico.

Anche in Europa non mancano i ritardi: Italia, Francia e Polonia sono tra i paesi che, secondo il Climate Change Performance Index 2024 (Germanwatch), stanno mostrando performance insufficienti rispetto agli impegni presi a livello UE. In particolare, l’Italia è stata criticata per la mancanza di un piano nazionale clima-energia aggiornato e per le scarse misure di adattamento climatico nei settori agricolo e urbano.

Gli accordi internazionali: strumenti efficaci o vetrine diplomatiche?

Gli accordi internazionali sul clima, pur essendo fondamentali per creare un linguaggio comune e fissare obiettivi condivisi, faticano a tradursi in azioni vincolanti e incisive. L’Accordo di Parigi del 2015 ha rappresentato una svolta storica, ma il suo meccanismo di revisione volontaria (i cosiddetti NDC – Nationally Determined Contributions) ha dimostrato tutti i suoi limiti: secondo l’UNEP Emissions Gap Report 2023, anche se pienamente attuati, gli attuali NDC porteranno il mondo verso un riscaldamento di circa 2,5-2,9 °C entro la fine del secolo.

Anche la recente COP28 di Dubai (dicembre 2023), pur con la storica menzione della “transizione fuori dai combustibili fossili”, ha lasciato spazio a numerose ambiguità, non imponendo alcun calendario vincolante né strumenti di sanzione per i paesi inadempienti. Tuttavia, alcuni strumenti multilaterali stanno emergendo con maggiore efficacia: ad esempio, la Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’UE, operativo dal 2026, mira a contrastare la delocalizzazione delle emissioni imponendo dazi alle importazioni ad alta intensità carbonica.

Nel frattempo, la spinta più concreta arriva spesso dal basso: città, regioni, aziende e comunità locali stanno sviluppando piani climatici indipendenti, in alcuni casi più ambiziosi dei governi centrali. Le alleanze tra attori non statali, come Race to Zero e C40 Cities, stanno ridefinendo la governance del clima in modo più dinamico e reattivo.

Cosa funziona davvero: lezioni da imparare

Dalle esperienze analizzate emergono alcune linee guida su ciò che funziona davvero. Le politiche efficaci condividono alcuni elementi: sono vincolanti per legge, coordinate su scala nazionale e locale, sostenute da forti investimenti pubblici e monitorate in modo trasparente. La partecipazione dei cittadini, la giustizia climatica e la protezione dei gruppi vulnerabili si stanno rivelando leve cruciali per garantire l’accettabilità sociale delle misure.

In sintesi, mentre alcuni governi stanno costruendo un futuro a basse emissioni con serietà e visione, altri si limitano a navigare l’onda della retorica, rinviando decisioni fondamentali. La sfida climatica richiede coraggio politico, coerenza tra parole e azioni e una nuova leadership orientata al bene comune, non agli interessi immediati. Perché, come ricordava António Guterres alle Nazioni Unite nel 2023, “stiamo aprendo le porte all’inferno climatico con il piede ancora sull’acceleratore”.

IEA – Denmark’s climate strategy and renewable energy leadership

Copernicus Climate Change Service – Temperature globali 2023
IRENA – Renewable energy capacity in Chile (2024)
IMF – Fossil fuel subsidies by country (2022)
Global Energy Monitor – New coal plant construction in China (2023)
UNEP – Emissions Gap Report 2023

Climate Change Performance Index 2024 – Country rankings

UN Secretary-General António Guterres – COP28 opening speech (2023)